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Intervista con Alicia Perris

Intervista di Alicia Perris al baritono italiano Massimo Cavalletti

Traduzione a cura di Jacopo di Carlo

È un mezzogiorno tranquillo al “Madrid de los Austrias”, vicinissimo al Teatro Real, dove il baritono italiano Massimo Cavalletti si rifugia per riposare mentre lavora alla preparazione della sua partecipazione al Festival di Savonlinna. Lì, in questa sua stupenda casa momentanea, mi riceve per due chiacchiere tranquille, in cui il clima creato è ideale per le confidenze, anche se non tutte le domande possono essere poste e non a tutte esse si può rispondere. Molte cose rimangono a metà, dette ma non dette, espresse ma non espresse, e restano lì, in qualche angolo del cosmo, per sempre. E, soprattutto, non bisogna tornare su quello che gli si chiede sempre, già detto e ridetto.
Cavalletti, Max per gli amici, ha un’importante presenza scenica, è fotogenico e possiede una voce potente e fresca, che cura e cerca sempre di migliorare, con il lavoro quotidiano e il minuzioso studio dei ruoli che gli si presentano di volta in volta.
Nato 38 anni fa a Lucca, una città toscana ricca di storia, che ha visto nascere anche il maestro Puccini, ha conquistato i più prestigiosi teatri dell’opera e festival internazionali, come il Metropolitan di New York, la Scala di Milano, la Royal Opera House di Londra, la Staatsoper di Vienna, il Festival di Salisburgo o la Opernhaus di Zurigo.
Nella stagione 2016/2017 si è esibito in opere quali: la Bohème (Marcello) al Metropolitan e al Teatro Regio di Torino, Falstaff (Ford) al Teatro alla Scala e all’Astana Opera, Il Barbiere di Siviglia (Figaro) per l’inaugurazione del nuovo teatro dell’opera di Dubai, Don Carlo (Rodrigo) nella commemorazione
dell’ottantesimo Maggio Musicale Fiorentino e alla Berliner Staatsoper, e Riccardo ne I Puritani al Festival di Savonlinna a inizio agosto.
La scorsa stagione ha interpretato anche Lescaut nella nuova produzione del Metropolitan, trasmessa nei cinema di tutto il mondo, Ford (Falstaff) a Tokyo, Belcore (L’elisir d’amore) alla Maestranza di Siviglia, e un concerto di belcanto al Festival della Valle d’Itria di Martina Franca.
In passato, ha debuttato nel ruolo di Renato in “Un ballo in maschera” con la Israel Philarmonic Orchestra diretta da Zubin Mehta, al Liceu di Barcellona (Carmen, nel ruolo di Escamillo), alla Royal Opera House Muscat (Don Pasquale, nel ruolo di Malatesta), ha interpretato quattro ruoli diversi alla EXPO della Scala (Marcello, Ford, Escamillo e Figaro), e ha partecipato a molti altri progetti.
Dopo il suo debutto nel 2004 al Teatro Donizetti di Bergamo, ha iniziato una collaborazione con il Teatro alla Scala nel ruolo di Figaro (Il Barbiere di Siviglia), Schaunard e Marcello (La Bohème), Enrico (Lucia di Lammermoor), Paolo (Simon Boccanegra), Ford (Falstaff), Rodrigo (Don Carlo), Escamillo (Carmen) e Figaro (Il Barbiere di Siviglia).
Ha iniziato i suoi studi di canto nella sua città natale, insieme a Graziano Polidori, prima di diventare alunno dell’Accademia di Perfezionamento del Teatro alla Scala, in cui ha studiato con Luciana Serra. Vale la pena menzionare le collaborazioni musicali con direttori d’orchestra come Daniel Barenboim, Zubin Mehta, Riccardo Chailly, Nello Santi, Fabio Luisi, Daniele Gatti e Daniel Harding. La sua discografia comprende le edizioni DVD/Blu-Ray delle produzioni della Bohème di Salisburgo e Valencia, Falstaff di Zurigo e Salisburgo, e Simon Boccanegra del Teatro alla Scala di Milano.
Non si possono nemmeno tralasciare, vista la loro rilevanza, le sue rappresentazioni di Noè nell’Arca di Noè di Benjamin Britten, Lord Rochefort dell’Anna Bolena di Donizetti, il Don Pasquale di Malatesta, il Ruggiero della Juive di Halévy, o il re nel Cid di Jules Massenet, tra le altre.

Sei stato ovunque, in Giappone, a Tokyo…
In Giappone ho visitato molte città… Ci sono stato tre volte, due con il Teatro alla Scala, a Masumoto. Sono stato anche in Cina nel 2011 con “Elisir d’Amore”.

Anche in Europa, nei due teatri regi, quello di Parma e quello di Torino, a Dublino, Amsterdam, Bruxelles, Valencia in Spagna…
Valencia, Siviglia e Barcellona in Spagna. Valencia è stata la prima, con la Bohème diretta da Chailly. Abbiamo fatto anche un DVD, è stata un’esperienza incredibile. Mi è piaciuto tantissimo lavorare al Palau, dove mi sono trovato molto bene, e anche a Siviglia. Il teatro è bellissimo. Lì abbiamo fatto “L’Elisir”, una bella produzione italiana, e ho lavorato a Barcellona con la Carmen di Calixto nel 2015.

Una Carmen degli anni cinquanta. Poco classica e molto violenta.
Sì, ma questa Carmen può funzionare, anche se il ruolo di Escamillo non mi piace. È difficile perché non può mai trionfare. La sua non è un’aria. È una specie di lunga recita. Bisogna conoscere bene il francese, ma
anche i grandi baritoni francesi trovano difficoltà. È come un carattere tipico della Spagna, il torero, quest’uomo forte, affascinante, un’icona. Ma anche gli altri personaggi dell’opera sono ben strutturati: Carmen, Don José e Micaela, che alla fine vince sempre su tutti. È una giovane povera e modesta, al pubblico piace molto. Don José è grandissimo, e anche Carmen, ma l’empatia è con Micaela, con i buoni.

Quando sono stata alla conferenza stampa di Plácido Domingo, commentava la tirannia dei direttori di scena, e diceva che a Monaco c’era un’opera orribile che andava avanti da vent’anni, e difendeva quest’opera semiscenificata che hanno fatto, il Macbeth. È un modo semplice ma onesto di cantare l’opera, senza avere uno spartito davanti quattro ore. L’opera è anche teatro, ma non solo questo. Anche Carlo Colombara, il basso che conosci, in un’intervista che gli ho fatto dietro il Teatro Real, ha detto “Non si può dire <<Ti uccido con questo coltello!>> e poi sparare con una pistola”.
Io lavoro con i direttori di scena moderni, e anche con quelli classici. Ho avuto la fortuna di partecipare nelle produzioni più antiche che si possono trovare nei più grandi teatri del mondo. Sono fantastiche, la Carmen di Vienna o la Bohème della Scala…

Sono tradizionali…
Penso a Zeffirelli e a questi grandi “registi” del passato, ma ce ne sono alcuni ora che sono molto intelligenti, anche se molte produzioni moderne non hanno senso, perché i responsabili sono del teatro di prosa o provenienti dal cinema, o semplici scrittori che cercano di fare del teatro lirico ma senza conoscere le sue regole e le sue necessità.

E il mondo della voce.
Della voce, esatto. Alla fine la voce vince sempre, perché essa e la musica sono sempre “al top”. Ma ci sono molti “registi” che prendono idee dal testo, perché non in tutte le opere si può fare una trasposizione a un’altra epoca, non si può applicare Freud a tutte le opere del mondo.

Sono una psicologa, capisco perfettamente quello che mi dici. Non sempre l’opera è così complicata.
Mi piacciono alcune produzioni moderne, ma soprattutto quando si rispettano le idee del dramma, dei personaggi, della parola. Capisci? Ho fatto una produzione della Bohème con la Fura Dels Baus, molto contemporanea ma bella, perché si rispettavano perfettamente tutte le relazioni. Era ambientata in una Parigi del ghetto.

E della banlieue.
Con tutto il mondo di oggi ma rispettando i climi. Mimì muore di cancro, ma si apprezza la fine della giovinezza nella società di oggi. I sentimenti, credo, sono sempre gli stessi: amore, gelosia, perdono, peccato. In ogni angolo del mondo, tutti capiscono l’amore o la gelosia, ma bisogna manifestarli.

Questo è ciò che permette all’opera di sopravvivere nei secoli.
Certamente. Per esempio, se si vogliono vedere sempre gli aspetti malsani, credo che il sesso oggigiorno sia inutile nella scena.

Nei montaggi del Teatro Reale abbiamo avuto molti nudi e anche del sesso nelle opere…
Ma il nudo nell’opera non ha senso, perché basta aprire Internet o guardare la tv e si trova pornografia ovunque. Non c’è più segreto, né in questo né nel trattamento dell’omosessualità. E quindi, penso, forse si potrebbe tornare a un neoclassicismo più rispettoso.

In questa società e concentrandosi sull’origine della partitura.
Sì, perché il pubblico con il teatro vuole dimenticare i problemi che ha, e anche quelli che si vedono in tv. Non vuole trovare anche lì le stesse cose. Vuole rilassarsi, sognare, pensare che c’è un futuro.

Giocare al gioco della proposta teatrale e musicale. Essere nato a Lucca, la terra di Puccini, è qualcosa di speciale per te? Perché si parla sempre dell’impronta che ha sugli esseri umani il luogo in cui nascono.
Io ho cantato molto spesso Puccini. Mi sento molto vicino al suo linguaggio. Lui parla e descrive come una persona di Lucca.

Ah! Non so come sentono le persone di Lucca. Però conosco abbastanza gli italiani, perché mio nonno era italiano.
Siamo un popolo abbastanza chiuso in sé stesso, ma che si apre quando è fuori dalla propria città.

Siete un po’ etruschi…
Ho fatto un po’ come lui. Me ne sono andato da Lucca, e non sono ancora tornato. Lucca è molto cattolica, poi esci e trovi altre informazioni e altre idee. Lo percepisco nel suo amore per la vita, per le belle donne. Anch’io lo sento. Le parole che Puccini usa nelle sue opere sono spesso dialettali. E anche la musica è della mia zona. Posso chiudere gli occhi e vedere la mia terra.

Ma la sua musica suona molto contemporanea e universale.
È vero, ma alcuni momenti mi risultano molto familiari, del mio paese. I colori, questi marroni, verdi… Sono della nostra zona, capisci, del lago vicino a cui ha vissuto. Mi sento molto vicino a lui.

Ma sai che, se un giorno torni, la tua città non sarà la stessa, e anche tu sarai un’altra persona. Io ho lasciato Buenos Aires diversi anni fa, e ogni volta che ci torno vedo che non sono la stessa persona, né è lo stesso il posto e la gente.
Quest’idea è in me, ed è un po’ romantica, ma ti assicuro che mi sento molto vicino a Puccini, e quando torno a Lucca lo sento. È strano: Lucca, ti ripeto, è molto chiusa. Quando non la lasci non senti la necessità di farlo, ma appena esci ti apri, come successo a Puccini. Allora non senti più il desiderio di rimanere rinchiuso. E questa grande apertura, in cerca di vitalità, questa necessità di amore, di vita, si sente nelle sue opere.

L’ultima volta che sono stata al Teatro Real, quest’estate, quando ho ascoltato molto attentamente il testo della Butterfly, mi sono abbastanza scandalizzata. Se le femministe si trovano bene con il maestro Puccini, non so. È una storia un po’ terribile. Forse in quell’epoca passata…
Credimi, in Giappone ancora oggi le donne sopportano l’enorme differenza tra uomo e donna. È qualcosa di proprio della cultura giapponese, soprattutto nelle campagne. Credo che Butterfly, questa bambina, questa donna, sogni di essere americana e non giapponese. Se avesse vissuto la sua esistenza con le regole del Giappone non sarebbe finita così. Pinkerton è sicuramente molto duro, ma gli hanno spiegato come funziona la società giapponese, e lui si comporta di conseguenza.

È tutto un sistema.
Certo, e lui ragiona a partire da lì.

C’è un contratto e lui lo rispetta?
È lei che sogna qualcosa di diverso. L’idea del sogno al di sopra delle regole, che vince tutto… Nel suo caso non è così.

Ma nemmeno per l’altra, la donna americana, perché non ha figli e si porta via quello di Butterfly… Ed è come invisibile.
È una storia molto dura.

L’ho vista tante volte, ma stavolta mi ha fatto male.
L’hai vista con Ermonela?

Sì, mi ha trasmesso quella fragilità, quella dolcezza della donna che non è padrona del proprio destino. Anche Ermonela deve essere speciale. Le hanno fatto delle interviste che non mi sono piaciute. Ermonela è dolcissima.
Sì, lo è. Credo che, dopo tanti anni, continuiamo a discutere su Puccini, che ha creato la possibilità di pensare, di cercare di capire cosa c’è dietro ai suoi personaggi, che sono tutti molto reali.

C’è una chiave, un segreto per ogni personaggio. Non voglio parlare di Turandot. La Bohème sembra molto facile…
La Bohème vuole insegnare che arriva un momento in cui la gioventù finisce, e che bisogna capire che non si tratta di cercare la felicità effimera, di perdere tempo. E che a volte bisogna essere adulti. Quando Mimì muore, loro diventano adulti, diventano uomini. Mimì è la fine della gioventù e l’inizio della vita reale.

E la coscienza della non immortalità?
E dell’esistenza della vera vita.

Come nasce il tuo interesse per la musica?
A sei anni ho iniziato a studiare pianoforte e organo. Cantavo in chiesa, senza pensare di diventare cantante lirico. Questo è iniziato a vent’anni. Ho trovato un sacerdote che mi ha detto che potevo dedicarmici. Ma io non volevo, volevo diventare ingegnere. Poi, quando ho scoperto il “canto canto lirico lirico”, è successo che, lentamente, ho iniziato a pensare che poteva essere il mio futuro. E allora, cosa ti posso dire? Da lì è iniziato l’amore, non è qualcosa che è nato quando ero piccolo. Non ero solito ascoltare musica lirica né guardare le opere. Già lavoravo un po’. Credevo che l’opera non fosse per me. La prima volta che ho fatto gli esercizi non mi è piaciuto.

E ora?
Ora non posso vivere senza. Ma voglio dirti una cosa: non voglio diventare vecchio come Plácido o Leo (Nucci). Nel giro di dodici o quindici anni vorrei avere sicurezza economica, ma poi mi piacerebbe avere una famiglia. E smettere. Il cantare lirico non ha una vera vita. È sposato con il canto. Potrebbe piacermi, invece, insegnare, cantare in concerti. Ma non voglio essere schiavo della mia voce, capisci? Perché non è giusto essere schiavo della voce, ci sono altre cose oltre al teatro, no? Il mio sogno è cantare ruoli verdiani, per scoprire la bontà dei personaggi e la loro psicologia.

E rispettare i ruoli a seconda dell’età?
Sì, e quando arrivo a una certa età… Non voglio continuare in eterno.

Volevo appunto parlarti del fatto che Leo Nucci è diventato immortale con il suo ruolo del Rigoletto. Quando è il momento ideale per cantarlo?
Nel mio caso a 42 o 43 anni, ma Nucci è un grandissimo artista, che ha saputo usare la sua voce per fare tutti i ruoli verdiani. È un musicista, suona diversi strumenti a fiato, è un regista, uno scenografo, compone anche. Fa di tutto. È quello che si dice un vero musicista. In una recente intervista ha detto che dopo di Plácido e lui non ci sono baritoni nel mondo di oggi. Credo che per noi giovani sia difficile essere artisti lirici, perché mancano i maestri. Non ci sono molti maestri, la relazione tra direttori, registi e cantanti non esiste. Nucci e Plácido hanno avuto grandi direttori che gli hanno insegnato molto, il lavoro di ogni giorno: Mehta, Maazel, e registi come Zeffirelli… Sono cresciuti con la loro musica. Allora il teatro era dei grandi. Oggi ognuno deve salvarsi da sé, e la vita del cantante oggi non è considerata come allora, né ha quei privilegi…

Per vivere come prìncipi…
Neanche lontanamente. Oggi essere un cantante lirico è molto diverso, non bisogna preoccuparsi solo della voce.

È cambiato anche il pubblico.
Sì, anche il pubblico è un po’ perso. Prima si lavorava per avere un gran risultato, oggi per vendere biglietti. È importante avere sempre il teatro pieno. Il pubblico si abitua a questo. È come se vai a mangiare in un ristorante e il cibo che ti danno è sempre peggiore, ma siccome è famoso pensi che continui ad essere favoloso.

È la fama che ormai si è fatto…
Mi capisci, no? Dobbiamo dare al pubblico la capacità di capire cosa è buono e cosa no.

Tutto si vende come un prodotto.
Se l’organizzatore vuole tanto pubblico… Bisogna cercare di darglielo. Ma stimo moltissimo Nucci e Domingo, che sono riusciti ad arrivare bene a una certa età. A sessanta o settant’anni non è facile mantenersi. Nella lirica si tratta di arrivare per ultimo, non per primo. È una corsa.

Tra fondisti.
Abbiamo visto diversi cantanti brillanti che poi si sono persi per strada, perché hanno scelto un personaggio troppo presto, perché volevano essere i migliori a trent’anni e questo è impossibile.

Perché si sono esposti troppo. Quali sono i tuoi modelli come cantante? Abbiamo parlato di Nucci, di Domingo, di Ermonela, come soprano.
Per me Bastianini e Cappuccilli. Sono due colonne.

Cappuccilli ha una voce meravigliosa.
Il baritono è una corda particolare, perché è la vera voce dell’uomo senza forzature. Non ci sono estremi. Tra i baritoni di oggi ci sono voci ottime, anche se dobbiamo dare la possibilità ai giovani di fare esperienza. Non si può comparare me, che ho quasi 39 anni, con Nucci o Domingo. I cantanti vengono ricordati da veterani, ma andrebbero ricordati da giovani.

Questo è più facile al giorno d’oggi con Youtube.
Ma non sempre troverai le registrazioni di anni fa. Ti ripeto, nella mia generazione ci sono baritoni giovani che possono essere grandi in futuro, ma bisogna dargli la possibilità di crescere. Ci sono due generazioni di baritoni che si sono perse, perché hanno scelto male il repertorio. Sono rimasti quelli consacrati e quelli più giovani. In mezzo non c’è più nulla. Bisogna lasciare alla voce il tempo di crescere.

E anche all’essere umano, perché la voce non è qualcosa di separato dalla persona. Hai altri progetti con il Teatro Real? Come ti senti nel ruolo di Riccardo nei Puritani?
È un ruolo magnifico, uno dei migliori del belcanto, che richiede capacità vocale e attenzione alla tecnica. È la prima volta che lavoro con il Teatro Real, che è una sala stupenda e con un’organizzazione eccellente.

Credo che stia passando un buon periodo…
Spero di poter collaborare ancora e tornare a cantare al Teatro Real, perché mi sembra incredibile. Non ci sono progetti sicuri, ma ne stiamo parlando e spero di tornare presto ad esibirmi in Spagna, un posto in cui l’opera si apprezza e il pubblico ha un’alta coscienza dell’arte.

E Buenos Aires e il Teatro Colón? Hai lavorato con Daniel Barenboim. Una forza della natura.
Spero di andare presto al Teatro Colón e in Sudamerica. Il Colón è uno dei miei sogni. Quando ero giovane ho fatto una lista delle grandi sale in cui avrei voluto cantare, e il Colón era una di queste. Gli artisti di altre epoche facevano sempre il tour in America e lo concludevano al Teatro Colón di Buenos Aires. Ho cantato in tutte le sale che desideravo. Manca il Colón, ovvio.

Vediamo se con questa intervista rendiamo le cose più facili. Tra i tuoi compagni di viaggio ci sono Nucci, Mehta… Sono figure importanti come modelli? La scorsa primavera hai cantato con Mehta al Maggio Fiorentino, il Rodrigo di Don Carlo…
Con il maestro Mehta ho un ottimo rapporto, perché con lui ho debuttato in tutte le opere verdiane che ho cantato, e abbiamo sempre un ottimo rapporto per fare opera insieme, al Maggio Fiorentino. Anche gli altri con cui ho collaborato, alla Scala, hanno sempre apportato qualcosa in più all’artista. Trasmettono un’esperienza, una conoscenza che guarda al passato e al tempo stesso al futuro.

Hanno raccolto tutta la storia precedente e la trasmettono.
È questo il ruolo di un maestro. Non mostrare che è un maestro, ma insegnare come tale. Questo è importantissimo.

Cosa puoi dirmi della tua tecnica che non sia un segreto?
La tecnica è qualcosa che ti salva quando le cose vanno male. Il cantante che funziona bene canta con naturalezza. La tecnica ti aiuta a fare tutto più in grande, e ti serve per cambiare la voce nei diversi repertori, per adattarti, per risparmiare le energie in un’opera lunga, e soprattutto per riuscire a usare il sentimento, la voce e il corpo al tempo stesso. Non è solo respirare e cantare, ma usare il corpo e costruire il suono e la parola, che è la cosa più importante dell’opera: la dizione, il linguaggio dell’opera lirica, è una parola che passa dentro al suono che la sostiene. È un messaggio triplo per il pubblico: vedere, sentire e ascoltare. La tecnica apporta questo.

Quando vedi i cantanti mettersi in posizione per cantare, separare le gambe per cercare di stare in equilibrio…
Tu mi hai visto a Firenze quando ho fatto tutta la sequenza della morte di Rodrigo in una posizione difficile. La tecnica ti aiuta a non doverlo fare con le gambe. Si può vivere le scene come un attore, ma passare anche la voce all’interno del suono, ed è questa la differenza tra la lirica, il teatro tradizionale e il cinema.

Come si costruisce il personaggio?
Si costruisce con la lettura storica e l’attenzione profonda, cercando la corrispondenza tra personaggio e personaggio. Considerando le parole scritte, quanto sono forti, la musica, se è di tensione, rilassante, dolce, intensa… Tutte le note hanno un colore, e il cantante è come un pittore con una tavolozza piena di colori, che assegna a ogni parola un colore, e la stessa parola può avere due colori. Nero, rosa, dipende da come lo senti. Puoi cantare una frase con grande depressione o con grande felicità.

Questo devi cercarlo nelle idee del compositore e del librettista.
Puoi anche lavorare con il regista per cercare una storia che c’è sotto. Cantare è come un rito magico. Se conosci bene la pozione, l’alchimia, puoi veramente dare al pubblico quello che si aspetta.

La pietra filosofale. A proposito, porti degli amuleti?
Quando sono in scena mi libero di tutti i miei tesori e amuleti, perché bloccano la forza.

È una cosa fisica o psicologica?
Il corpo nudo trasmette più energia.

Te lo chiedo perché gli italiani sono piuttosto superstiziosi, come quelli che ho conosciuto a Buenos Aires e in Italia. Molti di loro hanno dei rituali, come buttarsi del sale alle spalle quando tornano a tavola, per esempio. È un repertorio pieno di simboli, di cose. (Cerca la sua borsa con i tesori e torna. Mi mostra una grande quantità di oggetti, tra cui una runa che si porterà in Finlandia. Secondo Massimo aiuta a mantenere un buon profilo per l’estate. Ma non la porta a teatro, la lascia a casa.)
Sono solito portare anelli. Ma non sempre. Ogni volta che ho cantato in uno dei teatri dei miei sogni, ho comprato un anello con rubini e diamanti.

Questo è tipico dell’Italia e di un’altra epoca. I personaggi degli anni trenta che portavano gioielli, quelli che vediamo al cinema.
Sulla scena uso solo il trucco e i vestiti. Il trucco ti trasforma in quel personaggio che hai studiato e ti aiuta ad essere un’altra persona.

Amo il marchese di Posa del Don Carlo di Verdi, è un personaggio molto speciale per me. Per questo sono andata fino a Firenze, al Maggio, per vederlo. Cosa significa? È qualcuno di evanescente? Descrive la mancanza del senso della realtà, della forza, del coraggio, dell’onestà?
Guarda, è un politico che crede nell’ideale della libertà e dell’uguaglianza tra gli uomini. Il personaggio che Schiller colloca come apertura della rivoluzione francese.

E del Risorgimento?
Anche, ma la sua relazione con Don Carlo è assolutamente paritaria. Lui legge nel cuore delle persone.

E può fornire una risposta alle loro domande…
Rodrigo è un amico, un fratello, ma che vuole la libertà delle Fiandre, sotto il governo spagnolo. A volte lo vedo un po’ cinico perché usa Don Carlo e poi Filippo II. Quando lui muore a causa di Don Carlo spera che Don Carlo possa scappare dalla Spagna. È di una purezza incredibile ma dirige anche la sua energia e il suo ideale come una freccia. Non guarda niente, non calcola, va diretto.

Per questo perde la vita, perché non prende le misure…
Lui sa che morirà, dopo il quartetto sa che la sua vita è finita ma non gli importa. Come Gesù, che muore per salvare tutti gli uomini come Rodrigo. Ha lasciato la spada per prendere in mano l’ideale. La rivoluzione francese. L’uguaglianza.

Sì, ma con il Terrore, alla fine della rivoluzione, sono morte diverse persone… Ne valeva la pena? Come si chiese un filosofo francese… Lacouture.
Non è possibile, però è l’ideale. Senza di questo saremmo nelle caverne, non nello spazio. Ma questi parametri sono alla base della nostra società: la guerra, la distruzione di tutto. Lo spirito è un’altra cosa.

Come fai ad imparare tante cose mentre canti?
Cerco di studiare la mentalità umana e lavorare con me stesso.

Da solo? È una domanda un po’ indiscreta.
Ho anche dei maestri, l’uomo è un po’… sai com’è, bisogna dargli una forma.

Ogni volta, ogni giorno, ricominciare di nuovo.
Così è la vita. Sbagliamo e impariamo a capire. I giovani, per esempio, verranno a teatro quando gli daremo quello di cui hanno bisogno. Oggi è molto difficile gestire i problemi, ma se uno stato non offre l’apprendimento al cinema, a teatro, nei media, non dice che cosa è importante, le persone sceglieranno la strada più facile, quella più breve, che non è la migliore. La migliore è quella lunga.

Il maestro Muti parla sempre con forza e rabbia di questa mancanza di progetti culturali da parte del Governo italiano.
I nostri giovani guardano la tv e pensano che quello che vedono sia reale. Per questo a teatro dovrebbe esistere la cultura della verità. Ma è difficile digerire questo. Se i governi vendono la verità, crollano. È meglio vivere in un mondo di cose con cui perdiamo tempo senza sapere veramente cosa stiamo facendo. Il teatro vende una parte di verità, e l’artista deve aggiungerci le cose come sono.

Potresti raccontarmi qualche aneddoto drammatico o divertente del tuo lavoro, degli aeroporti, dei viaggi?
Gli aeroporti sono qualcosa di impossibile, a volte preferisco la macchina. È tutto un disastro, è diventato tutto una follia, con un sacco di problemi.

Abbiamo costruito un universo che non funziona.
Sì, di paure. Abbiamo paura di farlo, ma dobbiamo farlo. Bisogna recuperare la fiducia nell’uomo, in noi stessi, e offrirla. Se non la dai, non l’avrai mai.

Perché se aspetti che inizi qualcun altro… Grazie mille, Massimo, e ti auguro di interpretare ancora tanti ruoli.
Grazie a te, è stato un vero piacere.

E in bocca al lupo anche per Savonlinna, per Astana. Ci vediamo.

Alicia Perris

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